Saper uscire di scena è l’impresa umana più difficile. C’è chi sa farlo al momento giusto, chi rinvia sperando di salvarsi e chi, infine, resiste con ostinazione e con rabbia barricandosi. Costi quel che costi. Silvio Berlusconi appartiene senza dubbio alla terza categoria. Quel che sta succendo in queste ore ne è la dimostrazione. Non è mai successo nella storia della Repubblica che un presidente del Consiglio arrivasse ad anteporre, in modo così sprezzante, il proprio destino personale a quello del suo Paese. Berlusconi aveva davanti a sé, tra le altre, due strade. La prima, sicuramente inconcepibile per un leader che ha una visione personalistica della politica, era di seguire il «modello greco». Lì, il premier socialista Papandreou è riuscito a convincere una riottosa opposizione di destra a un governo di unità nazionale, facendo un passo indietro. Anteponendo gli interessi nazionali a quelli personali. La seconda strada, suggerita ieri da una Lega ormai quasi in rotta dopo essersi legata mani e piedi al Cavaliere, era di annunciare le dimissioni e passare il testimone a un altro esponente di centrodestra per andare al voto. Ha scelto, invece, l’opzione del terzo tipo: una sfida arrogante al Parlamento e al Paese. Dal chiuso della sua ridotta di Arcore ha fatto sapere che chiederà un nuovo voto di fiducia, vuole vedere in faccia i «traditori». Si tratta ormai di una resistenza scomposta e fine a se stessa. Il quadro era già abbastanza chiaro. Non serve citare il Financial Times («in nome di Dio e dell’Italia si dimetta»), basta ricordare la ben più grave immagine di isolamento al vertice G20, con un Berlusconi che si aggirava nei saloni alla ricerca di qualche incontro bilaterale che molti hanno preferito non accettare. Ma ancor più ieri l’andamento della Borsa ha dimostrato a quanto ammonti il «balzello Berlusconi» che siamo costretti a pagare: è bastato che circolassero voci di imminenti dimissioni e Piazza Affari è volata e il differenziale dei nostri titoli con il Bund tedesco si ridimensionasse in modo significativo. Tutti segnali dell’agonia di un regime, e come tutte le agonie lunghe anche questa rischia di lasciare dietro di sé disastri. Che fare per evitare il tracollo? E’ evidente che c’è un bisogno vitale di credibilità e di dignità, c’è bisogno di un sussulto nazionale che sia in grado di far capire al mondo che la fine di Berlusconi non è la fine dell’Italia e che i partiti non sono «tutti uguali», come scrive qualche interessato commentatore terzista. Le opposizioni oggi hanno un surplus di responsabilità. Devono riuscire a dimostrare che la politica ha ancora la forza necessaria per prendere in mano i destini del Paese. Che è in grado di fare le scelte per rimettere i conti a posto. E che deve saperlo fare coniugando, come ha detto Giorgio Napolitano, rigore e equità. In una fase in cui le invadenze tecnocratiche sono talmente forti che le ricette sembrano sacre e inviolabili (a volte persino politicamemente neutre) riuscire a fare scelte autonome e giuste sarebbe importante. E’ un punto serio, perché riguarda la coesione sociale del Paese, terremotata in questi anni non solo dal premier ma da molti dei suoi ministri. Per far questo bisogna però che ognuno lavori cercando, questo sì con ostinazione, quel che unisce e non quel che divide. L’unità delle opposizioni, infatti, può essere il fattore di stabilizzazione più importante e il segno che è possibile uscire dal cono d’ombra. Dopo qualche incomprensibile polemica sulla premiership, questa consapevolezza sembra essersi fatta strada in modo più convinto. La convergenza tra Pd, Sel, Idv e Terzo Polo è sicuramente un fatto politico inedito. Che va difeso e coltivato con intelligenza perché da esso dipende ormai gran parte del futuro italiano. Certo, sarà difficile che si realizzi un governo di unità nazionale. Ma anche se, come è probabile, lo "scasso" di Berlusconi dovesse portare alle elezioni anticipate, l’unità tra progressisti e moderati può diventare un fecondo segno di novità nella partita elettorale che si apre. Sappiamo che non è una strada piana, sappiamo che diversi dubbi serpeggiano ancora in alcuni settori e che ci sono resistenze antiche. Ma nei momenti critici l’orgoglio di partito deve sapere cedere il passo all’interesse nazionale. Il Paese, che prima o poi uscirà dal decennio berlusconiano, ha bisogno di idee e sensibilità diverse per riuscire nella grande opera di ricostruzione che sarà necessaria. Nelle vicende dell’Italia repubblicana ci sono precedenti importanti che oggi somigliano a delle grandi lezioni.
Saper uscire di scena è l’impresa umana più difficile. C’è chi sa farlo al momento giusto, chi rinvia sperando di salvarsi e chi, infine, resiste con ostinazione e con rabbia barricandosi. Costi quel che costi. Silvio Berlusconi appartiene senza dubbio alla terza categoria. Quel che sta succendo in queste ore ne è la dimostrazione. Non è mai successo nella storia della Repubblica che un presidente del Consiglio arrivasse ad anteporre, in modo così sprezzante, il proprio destino personale a quello del suo Paese. Berlusconi aveva davanti a sé, tra le altre, due strade. La prima, sicuramente inconcepibile per un leader che ha una visione personalistica della politica, era di seguire il «modello greco». Lì, il premier socialista Papandreou è riuscito a convincere una riottosa opposizione di destra a un governo di unità nazionale, facendo un passo indietro. Anteponendo gli interessi nazionali a quelli personali. La seconda strada, suggerita ieri da una Lega ormai quasi in rotta dopo essersi legata mani e piedi al Cavaliere, era di annunciare le dimissioni e passare il testimone a un altro esponente di centrodestra per andare al voto. Ha scelto, invece, l’opzione del terzo tipo: una sfida arrogante al Parlamento e al Paese. Dal chiuso della sua ridotta di Arcore ha fatto sapere che chiederà un nuovo voto di fiducia, vuole vedere in faccia i «traditori». Si tratta ormai di una resistenza scomposta e fine a se stessa. Il quadro era già abbastanza chiaro. Non serve citare il Financial Times («in nome di Dio e dell’Italia si dimetta»), basta ricordare la ben più grave immagine di isolamento al vertice G20, con un Berlusconi che si aggirava nei saloni alla ricerca di qualche incontro bilaterale che molti hanno preferito non accettare. Ma ancor più ieri l’andamento della Borsa ha dimostrato a quanto ammonti il «balzello Berlusconi» che siamo costretti a pagare: è bastato che circolassero voci di imminenti dimissioni e Piazza Affari è volata e il differenziale dei nostri titoli con il Bund tedesco si ridimensionasse in modo significativo. Tutti segnali dell’agonia di un regime, e come tutte le agonie lunghe anche questa rischia di lasciare dietro di sé disastri. Che fare per evitare il tracollo? E’ evidente che c’è un bisogno vitale di credibilità e di dignità, c’è bisogno di un sussulto nazionale che sia in grado di far capire al mondo che la fine di Berlusconi non è la fine dell’Italia e che i partiti non sono «tutti uguali», come scrive qualche interessato commentatore terzista. Le opposizioni oggi hanno un surplus di responsabilità. Devono riuscire a dimostrare che la politica ha ancora la forza necessaria per prendere in mano i destini del Paese. Che è in grado di fare le scelte per rimettere i conti a posto. E che deve saperlo fare coniugando, come ha detto Giorgio Napolitano, rigore e equità. In una fase in cui le invadenze tecnocratiche sono talmente forti che le ricette sembrano sacre e inviolabili (a volte persino politicamemente neutre) riuscire a fare scelte autonome e giuste sarebbe importante. E’ un punto serio, perché riguarda la coesione sociale del Paese, terremotata in questi anni non solo dal premier ma da molti dei suoi ministri. Per far questo bisogna però che ognuno lavori cercando, questo sì con ostinazione, quel che unisce e non quel che divide. L’unità delle opposizioni, infatti, può essere il fattore di stabilizzazione più importante e il segno che è possibile uscire dal cono d’ombra. Dopo qualche incomprensibile polemica sulla premiership, questa consapevolezza sembra essersi fatta strada in modo più convinto. La convergenza tra Pd, Sel, Idv e Terzo Polo è sicuramente un fatto politico inedito. Che va difeso e coltivato con intelligenza perché da esso dipende ormai gran parte del futuro italiano. Certo, sarà difficile che si realizzi un governo di unità nazionale. Ma anche se, come è probabile, lo "scasso" di Berlusconi dovesse portare alle elezioni anticipate, l’unità tra progressisti e moderati può diventare un fecondo segno di novità nella partita elettorale che si apre. Sappiamo che non è una strada piana, sappiamo che diversi dubbi serpeggiano ancora in alcuni settori e che ci sono resistenze antiche. Ma nei momenti critici l’orgoglio di partito deve sapere cedere il passo all’interesse nazionale. Il Paese, che prima o poi uscirà dal decennio berlusconiano, ha bisogno di idee e sensibilità diverse per riuscire nella grande opera di ricostruzione che sarà necessaria. Nelle vicende dell’Italia repubblicana ci sono precedenti importanti che oggi somigliano a delle grandi lezioni.