di Pietro Spataro
Un brigante o un grande leader? Parlare di Craxi Benedetto, detto Bettino, a dieci anni dalla morte vuol dire fare ancora i conti con questi opposti sentimenti. Ma sotto l'urto delle passioni è difficile fare il bilancio di un'esperienza politica che ha segnato un quindicennio della storia d'Italia. Quando nel luglio del '76 a 42 anni Craxi espugna il Midas e diventa segretario di un Psi agonizzante è quasi uno sconosciuto. C'è chi, come Fortebraccio sull'Unità, lo definisce «Nihil, il signor Nulla» e chi, dentro il suo partito, pensa che sia solo una soluzione di transizione. Sbaglieranno tutti, perché l'uomo è determinato, aggressivo, spregiudicato: sa che la partita è difficile e vuole giocarla a tutto campo, senza mediazioni. «Primum vivere» dice ai suoi.
«SENZA ANDARE PER IL SOTTILE... »
A Gerardo Chiaromonte, allora nella segreteria del Pci, che lo incontra qualche giorno dopo l'elezione dice: «Impiegherò ogni mezzo, senza andare per il sottile pur di salvare il Psi». Il suo obiettivo, nel momento in cui il Pci è al suo massimo storico e la Dc resiste e insieme hanno il 70% dei voti, era di rompere l'assedio. Contendere a Berlinguer l'egemonia a sinistra e alla Dc il ruolo di governo.
La storia del Psi di Craxi non è lineare. Possiamo dire che ci sono tre fasi: l'ascesa e la conquista del partito, la scalata di Palazzo Chigi, la bufera di tangentopoli e la fuga. «La prima fase - spiega lo storico Miguel Gotor - è segnata dal dinamismo e dall'innovazione sul piano culturale». È la fase in cui Craxi, oltre a ritagliarsi un ruolo autonomo (come fu la linea trattativista contro la linea della fermezza di Pci e Dc durante il sequestro Moro) lancia la sfida teorica al Pci. La rivista «Mondoperaio» diventa il pensatoio del nuovo corso e pubblica i saggi di Bobbio su democrazia e socialismo. Si mette in soffitta Marx e si tira fuori Proudhon, l'Espresso pubblica un lungo saggio di Craxi intitolato «Il vangelo socialista» e sull'Avanti si lancia la Grande Riforma. È una fase ricca di fermenti che dura quattro anni. Fino all'80, quando il Psi torna al governo con la Dc del preambolo che fa fuori Zaccagnini e ripristina l'esclusione del Pci. Come scrive Guido Crainz da lì lentamente Craxi diventa uno «spregiudicato alfiere dei nuovi ceti emergenti, portavoce di una modernità senza regole e senza principi». Aggiunge Giorgio Ruffolo nel suo ultimo libro Un paese troppo lungo: «Ebbe un comportamento corsaro. Svanì la sua capacità di percepire le domande nuove. Si legò al Caf e poi ebbe un ruolo di primo piano in tangentopoli».
Sono gli anni del governo, quelli in cui si costruisce il sistema di potere socialista: enti, ministeri, banche, assessorati, ospedali. Dovunque il Psi conquista spazi enormi. Si parla di onda lunga, il partito vive sopra le sue possibilità e si aggregano alla corte di Craxi giovani rampanti e affaristi spregiudicati. Si mettono in piedi faraonici congressi (la piramide di Panseca). Il Psi entra con prepotenza nella stanza delle tangenti e diventa il referente principale del sistema. Il trionfo sembra inarrestabile. E nell'agosto del 1983 Craxi diventa il primo presidente del consiglio socialista. «Quel governo - dice Emanuele Macaluso - fu uno dei migliori, basti ricordare i ministri: Spadolini, Visentini, Martinazzoli, Scalfaro». Aggiunge Gotor: «In quella fase Craxi ebbe delle intuizioni, soprattutto in politica estera e basta ricordare Signonella». La sua azione sarà caratterizzata, però, da un decisionismo senza freni (tentazioni presidenzialiste e limitazione del Parlamento) che porterà allo scontro finale con il Pci di Berlinguer. Accade quando il premier decide con decreto di tagliare la scala mobile.
BETTINO ED ENRICO
Craxi e Berlinguer. Due leader così diversi che difficilmente potevano incontrarsi. L'uno arrogante e impulsivo, l'altro timido e riflessivo. L'uno attratto dalla politica spregiudicata, l'altro convinto della centralità della questione morale. Ma non è solo questo. «Craxi e Berlinguer si danno i pugni - spiega Gotor - perché hanno strategie diverse». Il Pci impegnato a costruire il compromesso storico, il Psi in campo per l'alternativa socialista. Poi, quando il Pci, dopo l'assassinio di Moro e il fallimento della solidarietà nazionale, lancia l'alternativa democratica, Craxi sposa la governabilità e il rapporto con la Dc. «Diciamo la verità - aggiunge Macaluso - c'è stata tra Craxi e Berlinguer una reciproca volontà di prendere strade non convergenti. Con Craxi a Palazzo Chigi anche i timidi tentativi di dialogo si chiusero. Ricordo che Lama fu l'unico nel Pci a fare un'apertura nei confronti della presidenza socialista. E ricordo anche che nell'80 quando in un'intervista lanciai la proposta di ritornare alla solidarietà nazionale ma con un presidente del consiglio socialista ci fu una nota di Botteghe Oscure che disse che quelle erano opinioni personali».
SCALA MOBILE, CHE SCONTRO
Berlinguer è inflessibile. Forse aveva capito meglio di altri il pericolo del gioco di Craxi, la sua politica senza principi. E temeva che potesse cambiare la leadership della sinistra. «Ma quel timore - dice Macaluso - fu malgestito, anche con scelte esagerate». Lo scontro più duro fu proprio sulla scala mobile. Berlinguer non ne volle sapere di mediazioni e andò al referendum. E per il Pci fu una sconfitta pesante. Ci si arrivò senza Berlinguer che era morto e che subì, qualche settimana prima, anche l'affronto volgare dei fischi al congresso socialista di Verona e il commento di Craxi: sapessi fischiare avrei fischiato io...
L'onda socialista, mentre finiscono gli anni ottanta, non sembra andare da nessuna parte. Craxi esce da Palazzo Chigi, spuntano i primi arresti, i primi avvisi di garanzia. Ma il leader socialista non capisce più cosa succede nel mondo e in Italia. «Nell'89 - è la tesi di Ruffolo - poteva spezzare il blocco della democrazia e favorire l'alternanza». Il fatto è che Craxi non capì fino in fondo l'89 e cosa significasse il crollo di quel muro. «Non lo capì - conferma Macaluso - poteva incassare la vittoria della fine del comunismo e rilanciare l'unità della sinistra». Invece Craxi si inventa l'unità socialista, una sorta di sfida annessionistica al Pci. Il leader socialista non capisce nemmeno quel che ormai si muove nella società italiana. Avversa il referendum sulla preferenza unica nel '91 invitando gli elettori ad andare al mare. L'Italia sta cambiando, la spinta contro le degenerazioni della questione morale denunciate da Berlinguer è fortissima, appare la Lega che già nel '92 conquista 82 parlamentari. Il resto è storia giudiziaria. Le inchieste, gli atti d'accusa, il mandato di arresto, la fuga ad Hammamet, le condanne. La fine ingloriosa.
TANTI FALLIMENTI
Dieci anni dopo però è il fallimento politico di Craxi che appare più evidente. «Non aveva un progetto politico», dice Ruffolo, e questa fu la vera causa del suo declino. Non riuscì a conquistare l'egemonia della sinistra ridimensionando il Pci perché alla fine, ossessionato dai comunisti, distrusse un partito con una grande storia come quello socialista e contribuì alla crisi di tutta la sinistra. Non riuscì nemmeno a contrastare più di tanto il potere Dc che infatti tornò dopo di lui fino al crollo di tangentopoli. Non riuscì a cambiare l'Italia e a far emergere la parte innovativa dei nuovi ceti a cui aveva guardato all'inizio e si legò ai circuiti affaristi delle clientele e della corruzione. E alla fine fu lui a spianare la strada a Silvio Berlusconi e in qualche modo all'Italia di oggi.
Di questo, a dieci anni dalla morte, si dovrebbe discutere con serenità e senza passioni opposte. «C'era una volta Bettino Craxi», titolò questo giornale il giorno in cui si dimise da segretario.
Appunto: c'era una volta un uomo che voleva conquistare il potere, rinnovare la sinistra e cambiare il suo paese ma alla fine confuse i brutti mezzi con i buoni fini e fu travolto dalla macchina che aveva messo in piedi senza mai raggiungere l'obiettivo. Dunque: fu un grande leader?