di Pietro Spataro
Riuscirà il «compagno Fini» a liberarsi dal soffocante dominio di Berlusconi e a farsi interprete di un'altra destra? È la domanda che attraversa la politica italiana da almeno un lustro e la risposta, ancora oggi, non è facile perché troppe sono le incognite. Ma è chiaro che il discorso del presidente della Camera ieri a Gubbio segna uno spartiacque.
Fini ha superato il punto di non ritorno. Sarà complicato replicare il passato: cioè tornare nei ranghi come gli ha chiesto il direttore del il Giornale Vittorio Feltri e come lui spesso ha fatto. Insomma: ormai è fatta. Il profilo politico del partito indicato dall'ex leader di An non è quello di Berlusconi. Non gli somiglia nemmeno lontanamente. Quello ama il comando populista, lui chiede un partito che discute, si confronta e vota. Quello vuole mettere in riga i magistrati, lui chiede che si indaghi sulle stragi di mafia perché non bisogna dare l'idea che «non abbiamo a cuore la verità». Quello vuole dar corso allo scambio con la Chiesa sul biotestamento, lui ribadisce che non decidono le gerarchie cattoliche e che la posizione del Pdl va discussa. Quello lascia briglia sciolta a Bossi contro gli immigrati, lui vuole che votino. Come si vede sono due mondi lontani. Sono ancora conciliabili?
Qui si apre la questione delle questioni. E cioè: qual è l'obiettivo di Fini. Conquistare la leadership del partito sperando nel lento logoramento di Berlusconi che già mostra segni evidenti? Lavorare, come sostiene invece qualcuno, a un nuovo partito conservatore e laico?O ancora, come appare forse più probabile, andare avanti a tappe cominciando con il mettere in piedi una corrente finiana nel Pdl? Oppure infine sperare che le vicende giudiziarie (la bocciatura del Lodo Alfano o qualche novità proveniente da Palermo) facciano cadere il governo e favoriscano una soluzione istituzionale (il presidente della Camera invece che quello del Senato) meno sgradita all'opposizione?
Fini è uomo politico accorto. A differenza di Berlusconi viene da un partito vero. Sa che l'«arte della politica» non consente troppi azzardi. E quindi sa che per il momento la sua forza è ridotta. Ha un buon appeal mediatico ma poco seguito nel partito. Sembra quasi un profeta disarmato o un generale senza truppe. Quindi è probabile che dopo il discorso di Gubbio, che è stato forte e critico in profondità, il presidente della Camera si fermi a scrutare gli effetti. Vuole che resti, a differenza delle altre volte, un netto ventaglio di differenze tra lui e Berlusconi. Vuole mantenere una distanza e una visibilità anche a costo di aprire una questione istituzionale. In attesa che gli eventi gli suggeriscano la rotta da prendere. Ma ormai gli ormeggi sono stati tolti. Il vascello ha preso il largo.
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